Intervista allo Chef Gioacchino Saltarella
Classe 1995, Gioacchino Saltarella è il giovanissimo chef a capo della brigata del ristorante Al Mònd Vei di Livigno. Da due anni a questa parte, è stato scelto per gestire con abile passione e profuso impegno, l’attività di uno dei ristoranti più apprezzati di tutta l’alta valle.
Cuoco di professione, sportivo, ex cestista e runner attivo per passione, ha promosso e contribuito alla realizzazione del servizio fotografico che abbiamo realizzato lo scorso 17 luglio. Con grande entusiasmo si è reso disponibile per questa intervista non solo per presentarsi, ma anche per affrontare tematiche a noi molto care.
Ciao Gioacchino, innanzitutto grazie per la tua disponibilità a metterti in gioco con questa chiacchierata. Sei nato e cresciuto a Bari, ma ci puoi raccontare cosa ti abbia portato dal mare della Puglia, all’estrema altitudine di Livigno?
Ciao Marco, ti ringrazio per la tua voglia di intervistarmi e per avermi dato l’opportunità di mettermi in gioco attraverso le parole.
Mi permetto di correggerti: sono Nato e cresciuto a Mariotto, una piccolissima frazione in provincia di Bari, della quale ne vado fiero. Qui le tradizioni culinarie (e non) ne fanno da padrona. Come dico sempre, lasciare la propria Terra non è mai voluto, ma lo si fa per ragioni di forza maggiore, nel mio caso il lavoro. Se la motivazione che ti spinge a lasciare la Terra madre è una passione innata, lo si fa con meno fatica e sacrificio.
Che effetto ti ha fatto passare dalla costiera alle vette alpine? Capita di sentirti un pesce fuor d’acqua?
Tutti i cambiamenti, anche per brevi periodi, ti fanno sentire alle volte fuori luogo. Soprattutto, per chi come me, ha deciso di lavorare in questo settore ed è costretto a viaggiare per lavoro, deve prendere atto che si troverà di fronte a usanze di posti lontani e con tradizioni molto differenti dalle proprie. Inizialmente avevo un certo timore nel pensare di passare dal caldo della mia terra al freddo di un paese di cui non sapevo cosa aspettarmi. Poi per fortuna ci si abitua, ma soprattutto si trovano compagni di viaggio, che ti permettono di sentirti a casa e ritrovi una certa normalità.
Come riesci a conciliare il tuo lavoro con la passione per la corsa? Cosa ti porta ad allacciare le scarpe da running?
La prima volta che ho provato a correre è stato un paio di anni fa. Avevo bisogno di una valvola di sfogo cercando di accumunare tre cose per me importanti: natura, isolamento, musica. Così facendo sono riuscito a svuotarmi delle pressioni che ogni giorno si creano e sentirmi più leggero. Per me è diventata una sorta di ricarica di energia. Conciliare lavoro e corsa non è affatto difficile al momento. Anzi io penso che se una cosa la si vuole, la si riesce sempre ad ottenere. Non mi sono mai posto il problema “quando vado a correre?”. Appena posso allaccio le scarpe, cuffie nell’orecchio e via si parte!
Entrando nel merito della scorsa stagione lavorativa estiva: ti sei trovato consapevolmente a confrontarti con la disabilità legata alla sordità di Marco Frattini. Sappiamo che non sia una decisione semplice e priva di dubbi quella di collaborare con una persona che sulla carta possa presentarsi con handicap di natura diversa. Ci puoi raccontare cosa ti abbia portato a sceglierlo, la tua esperienza pregressa col mondo della disabilità e come giudichi, ormai conclusa, questa avventura professionale?
La scelta è avvenuta in comune decisione con il titolare, ma la cosa che mi ha colpito nel colloquio iniziale con Marco, è stato il suo ammettere limiti e trovare soluzioni per far si che lui potesse lavorare in modo sicuro. Inizialmente avevo paura che non sarebbe arrivato alla fine perché non aveva idea della mole di lavoro che lo aspettava. Invece con il passare dei giorni ho capito che se la sarebbe cavato in un modo o nell’altro, testardo com’è.
Molte persone utilizzano la disabilità, anche leggera, come velo per avere una scusa facile, pronta ed efficace. Persone come Marco sono persone che dovrebbero essere modelli da seguire. Per far capire a tutti che chi vuole può avere un’indipendenza nonostante una disabilità sin dalla nascita o arrivata poi.
“La forza di ogni individuo sta nella propria testa e accanto alle persone cui vuole bene”. Ritieni che sia un assioma valido anche nel mondo della cucina? Quanto è importante il rapporto e il gioco di squadra di una brigata?
La brigata di cucina è una squadra a tutti gli effetti. Se si lavora in team si ottengono ottimi risultati, altre modo si farà molta fatica. Alla fin fine noi cuochi trasportiamo anche le nostre emozioni e i nostri umori nelle pietanze; chi ne risente alla fine è il cliente. Io cerco nella mia brigata di avere un clima disteso e sereno, se noto degli asti cerco di risolverli e trovare dei compromessi per il bene di tutti. Anche perché studiare un piatto è un lavoro che deriva da una squadra coesa, dove ognuno porta una sua idea di accostamento di sapore, così da avere più idee possibili su cui pensare.
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